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Nota del Dott. Basso Andrea
Il Tribunale Penale di Fermo, con sentenza n. 247 del 22/03/2022, ha assolto un contribuente, difeso dall’Avv. Giacomo Galeota, in un procedimento penale relativo ad una presunta evasione di imposte sui redditi e IVA, affermando un importante principio in merito alla valenza penale degli accertamenti induttivi effettuati dall’Agenza delle Entrate.
A seguito di un controllo operato dall’Agenzia delle Entrate, un libero professionista era stato accusato di aver “distrutto e/o occultato” la propria documentazione contabile per evadere il pagamento delle imposte, in quanto era emerso che il numero di fatture pro-forma rilasciate ai clienti fosse ben superiore rispetto ai documenti fiscali effettivamente dichiarati.
Nello specifico, l’Amministrazione Finanziaria riteneva che il contribuente avesse occultato e/o distrutto nr. 1874 ricevute (di cui n. 684 per l’anno 2011, n. 646 per l’anno 2012 e n. 544 per l’anno 2013), fondando tale calcolo sulla numerazione delle fatture pro-forma di cui era riuscita ad entrare in possesso attraverso le varie banche dati dell’anagrafe tributaria.
Stimando un compenso medio di € 50,00 per ogni ricevuta fiscale, gli operanti della Guardia di Finanza avevano ipotizzato un’omessa dichiarazione di compensi per € 32.650,00 per l’anno 2011, di € 30.650,00 per l’anno 2012 ed € 25.900,00 per l’anno 2013.
Pertanto, oltre all’accertamento tributario, il professionista è stato rinviato a giudizio per il reato ex art. 10 D.Lgs. 74/2000, che punisce chi, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi e del volume di affari.
Nel corso del dibattimento, l’Avv. Galeota ha citato come testimoni vari clienti del professionista, allo scopo di far emergere che il minor numero di ricevute fiscali registrate rispetto ai pro-forma, era dovuto al mancato pagamento del professionista da parte dei clienti, pur a fronte di prestazioni eseguite.
Per altro verso, anche la numerazione delle fatture pro-forma non poteva costituire piena prova, atteso che lo stesso commercialista dell’imputato, escusso come teste in giudizio, aveva riferito che la numerazione delle stesse fosse generalmente casuale e, in ogni caso, non indicativa, anche considerando che di tali documenti non è obbligatoria la registrazione.
Come confermato dai testi, il professionista era dunque solito rilasciare al cliente la fattura pro-forma e, solo dopo aver ricevuto il pagamento, emetteva fattura, con numerazione diversa dal documento pro-forma, che veniva registrata regolarmente in contabilità.
Ebbene, il Giudice ha avuto modo di precisare che, ai fini dell’attribuzione della responsabilità penale, gli accertamenti devono essere di natura obiettiva, ovvero rivolti al verificare, tramite i clienti, l’effettivo incasso da parte del professionista delle singole ricevute o fatture pro forma.
Il giudicante afferma poi che: “L’accertamento tributario induttivo può essere posto alla base di un accertamento penale, ma sottoponendo le relative risultanze ad autonoma valutazione critica e comparandoli con tutte le evidenze processuali disponibili”.
Peraltro, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, gli elementi su cui si fondano le presunzioni hanno natura di mero indizio, non di prova, e, nel caso di specie, l’emissione del quantitativo di ricevute contestate ed il relativo incasso delle somme sono stati solamente presunti.
Stante quanto emerso in dibattimento, nel quale i clienti hanno confermato di non aver potuto pagare il professionista, l’accertamento della Guardia di Finanza non ha dunque trovato riscontro fattuale.
Per tali ragioni, il Giudice ha ritenuto mancante l’elemento oggettivo del reato ascritto, in considerazione del fatto che la documentazione contestata all’imputato (ricevute per compensi non ancora incassati dal professionista) non è soggetta all’obbligo di registrazione e conservazione, “non essendo tra l’altro produttiva di alcun guadagno o reddito”.
Per quanto attiene al profilo soggettivo, il Giudice ha precisato che, in generale, il reato per cui si procede necessita di una condotta commissiva, non essendo sufficiente un mero contegno omissivo.
Ancora una volta, l’esame complessivo del quadro probatorio ha portato a concludere per l’assenza di gravi indizi di colpevolezza dell’imputato, “in quanto l’accertamento del dolo specifico, consistente nel fine di evadere le imposte, presuppone la prova della produzione di reddito e del volume d’affari che, come visto, non è stato provato nella fattispecie in esame”.
Alla luce di tali considerazioni, il Giudice non ha ritenuto raggiunta oltre ogni ragionevole dubbio la piena prova della responsabilità penale del professionista, poiché la tesi accusatoria si è basata esclusivamente su presunzioni ed accertamenti induttivi, senza indicare gli elementi costitutivi del reato contestato.
L’imputato è stato assolto dunque con formula piena perché il fatto non sussiste ex art. 530 comma 2 c.p.p.
La pronuncia appena esaminata assume notevole importanza in materia di reati tributari, confermando in maniera chiara come le presunzioni operate dal Fisco in sede di accertamento tributario, necessitano di adeguati risconti oggettivi per fondare la responsabilità penale del contribuente.
In allegato, il testo della sentenza n. 247 del 22/03/2022 del Tribunale di Fermo.
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Giacomo Galeota
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