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Nota dell’Avv. Andrea Basso
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9187 del 03 marzo 2023 sotto allegata, è intervenuta per precisare le differenze e delimitare i confini applicativi tra la fattispecie di atti persecutori (cd. stalking) ex art. 612 bis c.p. ed il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi ex art. 572 c.p.
Tale intervento chiarificatore si è reso necessario dopo che, con la riforma del 2013, il Legislatore ha fatto rientrare tra i soggetti attivi del reato ex art. 612 bis c.p. anche il coniuge non legalmente separato e la persona legata all’offeso da relazione affettiva sussistente al momento del fatto.
Nella vicenda in esame, la Corte di Appello di Bologna aveva confermato la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia, con la quale un uomo era stato condannato a due anni e due mesi di reclusione per il reato ex art. 572 c.p., avendo maltrattato la convivente, incinta, in presenza dei figli minorenni della coppia.
In particolare, era emerso che nel gennaio 2017, poco dopo aver iniziato la convivenza, l’uomo aveva assunto comportamenti violenti nei confronti della compagna, con insulti e schiaffi anche in presenza del figlio e addirittura tentando, nel marzo 2017, di strangolarla.
La donna si era allontanata dalla casa ma l’uomo l’aveva minacciata di non farle più vedere il bambino se non fosse tornata a vivere con lui, circostanza avvenuta nell’aprile 2017.
Durante tale seconda convivenza, le violenze erano continuate anche mentre la donna stava portando avanti un’altra gravidanza, tuttavia, dopo l’intervento delle forze dell’ordine e dei servizi sociali, la situazione sembrava essersi rasserenata fin quando, circa due anni dopo, la donna ha scoperto che l’uomo stava intrattenendo una relazione extraconiugale.
A quel punto, le minacce e le violenze fisiche dell’uomo sono riprese, fin quando, dal gennaio 2020, la donna si è trasferita con i bambini, prima dalla madre poi per conto proprio.
Anche dopo l’abbandono della casa, le violenze dell’uomo non si erano interrotte, in quanto lo stesso controllava e seguiva la compagna, le inviava sms ingiuriosi, le impediva di truccarsi e vestirsi come voleva, la minacciava di ucciderla e di portarsi via i figli e, in tre occasioni, l’aveva picchiata con schiaffi, ginocchiate e pugni.
L’episodio più significativo era avvenuto il 7 febbraio 2020, quando l’uomo, insieme alla nuova compagna, si era introdotto nell’abitazione della donna e, dopo averla malmenata in presenza del figlio, aveva tentato di gettarla dalla finestra: dopo il tempestivo intervento di un’amica della vittima, l’uomo era stato sottoposto a misura cautelare non custodiale.
L’uomo era stato dunque condannato per il reato di maltrattamenti anche in relazione ai fatti commessi dopo la fine della convivenza, in quanto la Corte aveva valorizzato l’orientamento giurisprudenziale della cd. “ situazione di condivisa genitorialità”.
L’uomo ha impugnato in Cassazione la sentenza di condanna, con ricorso articolato in due motivi.
Il primo motivo lamenta il vizio di motivazione per avere la Corte rigettato anche in appello, come in primo grado, la richiesta di escussione della nuova compagna dell’imputato, che era presente durante i fatti del 7 febbraio 2020 ed avrebbe potuto confermare l’assenza della testimone che aveva riferito l’episodio.
Con il secondo motivo, il ricorrente ha eccepito vizio di motivazione, poiché la Corte non aveva esaminato la richiesta di escludere l’aggravante della presenza dei figli minori o, quanto meno, di ridurne l’applicazione sino al maggio 2019, momento in cui era entrato in vigore un inasprimento sanzionatorio della fattispecie con la L. 69/2019 e con l’introduzione dell’aggravante ex art. 572 comma 2 c.p.: ciò comportava l’esclusione della possibilità di usufruire della sospensione condizionale della pena e dell’esecuzione ex art. 656 comma 9 c.p.p., nonostante la remissione di querela da parte della persona offesa.
La Corte di Cassazione ha parzialmente accolto l’appello dell’imputato, sulla base delle seguenti considerazioni.
Innanzitutto, il primo motivo di appello è stato ritenuto manifestamente infondato, atteso che l’imputato ha accettato il rito abbreviato anche dopo la mancata escussione della teste richiesta e che la sentenza d’appello ha correttamente argomentato in merito alla non necessità dell’esame testimoniale richiesto, in presenza di un quadro probatorio completo. Ciò, senza considerare che nel rito abbreviato le parti non hanno diritto ad assumere prove nuove.
Per quanto attiene al secondo motivo di appello, i Giudici di legittimità lo hanno valutato reiterativo e tardivo, in quanto proposto in appello in termini generici, senza tener conto delle argomentazioni delle sentenze rese nei precedenti gradi di giudizio. Peraltro, ad avviso della Corte, al ricorrente sono state applicate circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate, di talchè il motivo di ricorso è sprovvisto di effetto giuridico.
Tuttavia, il Collegio ha sollevato d’ufficio la questione relativa alla qualificazione giuridica delle condotte poste in essere dall’imputato dopo la fine della convivenza con la persona offesa, nel maggio 2019, la quale sottende il discrimine tra la fattispecie di maltrattamenti e quella di atti persecutori aggravati.
Nel proprio ragionamento, la Corte parte dalla definizione di convivenza e, all’esito di un excursus storico, giuridico ed ermeneutico, per affermare che la convivenza è qualificata dalla spontaneità della decisione volta ad una comunione materiale e spirituale di vita. Da ciò discende che la convivenza non viene meno quando è sospesa o intervallata, a condizione che rimangano intatti gli altri aspetti, materiali e spirituali, della comunione di vita e della volontà di adesione: ciò dovrà essere accertato in concreto dal Giudice di merito, tenuto conto dei vari indicatori individuati dalla giurisprudenza nel tempo.
Analogamente, la Corte si sofferma sulla definizione di relazione affettiva, richiamata nell’art. 612 bis comma 2 c.p., che deve intendersi come “un legame sentimentale derivante da un rapporto di reciproco affidamento che facilita il delitto, in quanto l’autore sfrutta la fiducia che la vittima ripone in lui e ne approfitta per accedere violentemente o abusivamente nella sua sfera più intima, senza che vi sia né una stabile condivisione di vita ovvero di una convivenza attuale o cessata né che vi siano frequentazioni ancorché episodiche”.
Alla luce di tali considerazioni, e tenuto conto del dettame dell’art. 25 comma 2 Cost., è proprio il momento della fine della convivenza a delineare il confine tra i due reati in esame: ove le condotte violente e sopraffattorie siano commesse dopo il divorzio, si applicherà la forma aggravata prevista dall’art. 612 bis comma 2 c.p., atteso che la convivenza non è più in atto.
Invece, se tali condotte da parte del coniuge, anche separato, o dal compagno, proseguono dopo la fine della convivenza, sarà necessario applicare la clausola di specificità prevista al comma 1 dell’art. 612 bis c.p. e spetterà al giudice individuare le ragioni di applicazione di una o dell’altra fattispecie.
In particolare, il Collegio giudicante ritiene che, in caso di cessazione della convivenza, è necessario “un approfondito accertamento di fatto volto a verificare se tra l’autore del reato e la persona offesa non vi sia più quella consuetudine di vita che connotava il precedente rapporto, tale da escludere un’incombente e continuativa presenza del primo nell’esistenza della vittima e una modalità relazionale in piena discontinuità rispetto alla fase della convivenza. Per compiere una corretta qualificazione giuridica delle condotte illecite, il giudice di merito deve operare un doppio accertamento della situazione di fatto al momento della consumazione delle violenze: quello preliminare circa l'esistenza di una "convivenza" e non di una "relazione affettiva", in base agli indicatori di cui ai paragrafi 10.1 e ss.; quello successivo circa l'effettiva interruzione della convivenza. Questo secondo requisito, cioè l'effettiva interruzione della convivenza, è cruciale in quanto dalla sua esistenza deriva l'applicazione dell'art. 612-bis, comma 2, c.p. e, di converso, l'esclusione del reato di maltrattamenti”.
In estrema sintesi, secondo la Suprema Corte, “E', dunque, necessario verificare se la persona offesa abbia effettivi spazi di autonomia, materiale e psicologica, rispetto al maltrattante nel qual caso ricorre la cessazione della convivenza e, dunque, si applica la fattispecie di cui all'art. 612-bis, comma 2, c.p. oppure continui ad esserne totalmente privata, come avveniva nel corso della convivenza, a tal punto da rendere le violenze senza soluzione di continuità, nel qual caso si applica la fattispecie di cui all'art. 572 c.p..”.
Gli Ermellini hanno dunque censurato la decisione della Corte di Appello di Bologna, atteso che, una volta accertato che le violenze si sono consumate in una situazione di autonomia della vita della persona offesa, il fatto deve essere qualificato nell’alveo dello stalking, eventualmente in continuazione con la fattispecie di maltrattamenti perpetrata sino al maggio 2019, e conseguentemente devono escludersi tutte le aggravanti relative a tale secondo reato.
Da ciò discende che la sentenza deve essere annullata, con rinvio ad altra sezione della stessa Corte d’Appello per la rideterminazione della pena relativamente ai fatti compiuti dall’imputato dopo il maggio 2019.
In allegato, il testo della sentenza Cassazione Penale, Sezione VI, n. 9187 del 3 marzo 2023
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