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Nota del Dott. Andrea Basso
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39529 del 1 luglio 2022, sotto allegata, ha ribadito la valenza probatoria dei messaggi scambiati attraverso il social Whatsapp.
La pronuncia della Suprema Corte ha concluso la vicenda giudiziaria che aveva visto la condanna in primo grado di un uomo per il reato di indebito utilizzo di strumenti di pagamento diversi dai contati ex art. 493 ter c.p.
Tale condanna era stata confermata dalla Corte d'Appello di Milano e l'imputato ha proposto ricorso in Cassazione, lamentando l'illegittimità della sentenza d'appello sotto quattro profili.
Mentre il primo motivo riguardava la mancata applicazione della non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis c.p., le altre doglianze riguardavano l'utilizzabilità di alcune fonti di prova.
Invero, l'imputato ha ritenuto di adire la Suprema Corte in merito alla ritenuta utilizzabilità di una comunicazione, non acquisita agli atti, che sarebbe intercorsa tra gli avvocati delle parti, all'inutilizzabilità delle presunzioni da cui sarebbe stata dedotta la mancata autorizzazione all'utilizzo della carta bancomat, oltre che all'acquisizione e utilizzazione dei messaggi WhatsApp.
Tuttavia, il ricorso è stato dichiarato inammissibile e la Corte non ha accolto nessuno dei motivi presentati dal ricorrente.
In primo luogo, la censura relativa alla mancata applicazione dell'art. 131 bis c.p. è stata ritenuta manifestamente infondata, atteso che, in assenza di palesi illogicità, il giudizio relativo all'applicazione di tale causa di esclusione della punibilità è insindacabile dai giudici di legittimità. A ciò si aggiunga che la decisione dei giudici di merito è corretta, in quanto fondata su una valutazione complessiva della fattispecie concreta, che ha tenuto conto anche della reiterazione delle condotte e dell'ammontare dei prelievi effettuati. La sentenza è dunque adeguatamente motivata sul punto.
Allo stesso modo, anche la contestazione relativa all'utilizzabilità della conversazione intercorsa tra avvocati è infondata, posto che la mail cui si fa riferimento in sentenza è stata ritualmente acquisita nel corso del dibattimento e ad essa non si può estendere la disciplina prevista per la corrispondenza tra difensori, in quanto è stata inviata dal difensore dell'imputato alla persona offesa.
Ad ogni modo, è il terzo motivo di ricorso a meritare un esame più approfondito.
Il ricorrente ha lamentato infatti la violazione di legge in relazione all'art. 234 c.p.p., poiché i messaggi WhatsApp prodotti, in assenza dell'apparecchio cellulare e non ritualmente estratti dallo stesso, dovevano essere considerati inutilizzabili e non potevano essere posti a fondamento della decisione.
Ebbene, i giudici di legittimità hanno confermato il corretto operato della Corte territoriale, la quale si è conformata agli orientamenti giurisprudenziali più recenti, secondo cui: "in tema di mezzi di prova, i messaggi "whatsapp" e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell'art. 234 cod. proc. pen., sicché è legittima la loro acquisizione mediante mera riproduzione fotografica, non trovando applicazione né la disciplina delle intercettazioni, né quella relativa all'acquisizione di corrispondenza di cui all'art.254 cod. proc. Pen.".
D'altronde, precisano gli Ermellini, al di fuori delle ipotesi in cui sia in corso un'attività di captazione delle comunicazioni, "il testo di un messaggio sms, fotografato dalla polizia giudiziaria sul display dell'apparecchio cellulare su cui esso è pervenuto, ha natura di documento la cui corrispondenza all'originale è asseverata dalla qualifica soggettiva dell'agente che effettua la riproduzione, ed è, pertanto, utilizzabile anche in assenza del sequestro dell'apparecchio".
Nel caso di specie è poi necessario evidenziare che tali messaggi erano stati scaricati sul pc dalla persona offesa e, perciò, l'utilizzabilità del contenuto degli stessi deriva anche dalla riconosciuta attendibilità delle dichiarazioni accusatorie rese dalla vittima.
In ultimo, anche il quarto motivo di ricorso è stato rigettato, ritenuto che, a prescindere da ogni considerazione in merito all'utilizzabilità delle presunzioni nel processo penale, le dichiarazioni della persona offesa hanno confermato che il ricorrente non era stato autorizzato a utilizzare il bancomat della stessa.
Per tali ragioni, a seguito della declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione, l'imputato è stato condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di € 3.000,00 in favore della cassa delle ammende, oltre che alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, quantificate in € 2.000,00 oltre accessori di legge.
In allegato, il testo della sentenza della Cassazione n. 39529 del 1 luglio 2022
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Giacomo Galeota
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