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Nota del Dott. Andrea Basso
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 22616 del 19 luglio 2022 sotto allegata, ha precisato i poteri del giudice, in sede di separazione dei coniugi, nel disporre le indagini tributarie al fine di determinare l’importo dell’assegno di mantenimento.
Con sentenza emessa nell'anno 2018, il Tribunale di Milano aveva dichiarato la separazione personale dei coniugi con addebito al marito, assegnando la casa coniugale alla moglie, la quale avrebbe ivi convissuto con il figlio maggiorenne, economicamente non autosufficiente. Nel medesimo provvedimento, il Tribunale meneghino aveva imposto al marito l’obbligo di versare la somma di € 1.200,00 mensili a titolo di mantenimento del figlio, oltre al pagamento integrale delle spese straordinarie nonché di versare la somma di € 1.300,00 come assegno di mantenimento in favore della moglie.
La donna ha proposto appello contro tale decisione, lamentando che la quantificazione degli assegni era insufficiente. Nello specifico, la stessa censurava l’operato del giudice, il quale aveva ritenuto che alcuni redditi derivanti dall'attività di libero professionista del marito, asseritamente non dichiarati al fisco, fossero irrilevanti nella determinazione del tenore di vita familiare e delle effettive condizioni economiche del marito. Dunque, la coniuge insisteva sia per l'accoglimento dell'ordine di esibizione, formulato in primo grado, sia per il compimento di accertamenti di polizia tributaria.
La Corte di Appello di Milano ha rigettato l’appello, confermando la sentenza di primo grado. A sostegno della propria decisione, la corte distrettuale ha affermato che l'eventuale disponibilità di entrate sottratte all'imposizione fiscale, di cui tutto il nucleo familiare aveva in passato beneficiato, non potesse essere preso a parametro di riferimento per determinare l'assegno spettante al coniuge separato e al figlio.
La stessa Corte, sotto altro profilo, ha ritenuto non necessarie indagini di polizia tributaria e ulteriori approfondimenti istruttori, escludendo anche il ricorso alle presunzioni gravi, precise e concordanti, poiché le eventuali entrate sottratte all'imposizione fiscale non potevano costituire parametro di riferimento del tenore di vita familiare.
Le motivazioni dei giudici d’appello non hanno convinto la donna, la quale ha proposto ricorso per Cassazione articolato in due motivi: con il primo, si sosteneva che la Corte d’Appello avrebbe dovuto considerare che ciò che rilevava era il tenore di vita matrimoniale, a prescindere dal fatto che le disponibilità di cui godeva la famiglia fossero o meno sottratte all'imposizione fiscale.
Inoltre, fondando la propria decisione sull'erroneo principio per cui i redditi non dichiarati non possono essere considerati ai fini della determinazione degli assegni, la Corte avrebbe causato uno "sbarramento istruttorio", con un conseguente "appiattimento" sulle risultanze fiscali, atteso che era stato impedito l'ingresso in giudizio di diversi elementi rilevanti per la ricostruzione dell'effettivo tenore di vita familiare.
Gli Ermellini hanno accolto il ricorso della coniuge, partendo dal presupposto, ormai consolidato in giurisprudenza, che, ai fini della determinazione degli assegni di mantenimento del coniuge e dei figli in sede di separazione, è necessario accertare il tenore di vita condotto dai coniugi quando vivevano insieme, a prescindere dalla provenienza delle consistenze reddituali o patrimoniali da questi ultimi godute. Dunque, assumono rilievo anche i redditi occultati al fisco, la cui emersione, ai fini della decisione, è possibile grazie agli strumenti processuali, anche ufficiosi, previsti dall’ordinamento.
In quest’ottica, di fronte a risultanze incomplete o inattendibili, il giudice ha la possibilità di fare ricorso, anche d'ufficio, alle indagini di polizia tributaria, posto che l'occultamento di risorse economiche rende assai arduo dimostrarne la realtà in base alle regole dell'ordinario riparto dell'onere della prova, con conseguente rischio di pregiudicare il diritto di difesa di chi intende farle emergere in giudizio.
Afferma ancora il giudice di legittimità che il potere di disporre indagini della polizia tributaria è la massima espressione della particolarità della disciplina regolatrice dei procedimenti di separazione (e divorzio). Pertanto, ove lo stesso ritenga che gli elementi di prova offerti non siano sufficienti o attendibili, egli ben può, per il tramite della polizia tributaria, dare disposizioni ufficiose al fine di accertare la reale situazione economica e patrimoniale dei coniugi.
Ciò costituisce a ben vedere una deroga ai generali principi dell'onere della prova, sicchè è necessario delimitare l'ambito di operatività di tale potere ufficioso. Dunque, ad avviso degli Ermellini, per poter fondatamente richiedere l'attivazione dei poteri ufficiosi in questione, occorre che “siano offerti fatti concreti, capaci di mettere in discussione la rappresentazione della parte avversa in ordine alle condizioni di vita delle parti, come avviene proprio nel caso in cui siano prospettate entrate occultate al fisco[...] Ciò che rileva è la deduzione di fatti concreti, risultanti dagli atti di causa, che inducano a far ritenere che la parte detenga sostanze economiche o patrimoniali ulteriori rispetto a quelle rappresentate in giudizio”.
In sostanza, se la parte ha offerto elementi concreti e specifici a sostegno della richiesta di indagini della polizia tributaria, il giudice di merito non può rigettare la richiesta e, allo stesso tempo, rigettare anche le domande su di essa fondate.
Preso atto che, nel caso di specie, la ricorrente ha effettuato contestazioni specifiche in merito alle risultanze acquisite al processo, riportate nel ricorso, allo scopo di fare emergere l'incoerenza tra il tenore di vita assicurato alla famiglia e l'entità dei redditi dichiarati dal marito, la Corte ha ritenuto fondate le censure proposte, affermando il seguente principio di diritto: “Nei giudizi di separazione giudiziale dei coniugi, il potere di disporre indagini della polizia tributaria, derivante dall'applicazione analogica della L. n. 898 del 1970, articolo 5, comma 9, costituisce una deroga alle regole generali sul riparto dell'onere della prova, il cui esercizio è espressione della discrezionalità del giudice di merito che, però, incontra un limite in presenza di fatti precisi e circostanziati in ordine all'incompletezza o all'inattendibilità delle risultanze fiscali acquisite al processo. In tali casi, il giudice ha il dovere di disporre le indagini della polizia tributaria, non potendo rigettare le domande volte al riconoscimento o alla determinazione dell'assegno, fondate proprio sulle circostanze specifiche che avrebbero dovuto essere verificate per il tramite delle menzionate indagini”.
Alla luce di tali argomentazioni, la Cassazione ha rinviato la causa alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione, la quale avrà l’obbligo di decidere la controversia, anche riguardo alle spese di giudizio, in maniera conforme ai principi di diritto espressi dalla suprema Corte.
In allegato il testo dell’ordinanza n. 22616 del 19 luglio 2022 della Cassazione
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Giacomo Galeota
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